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1.
Sinopia |
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Il disegno
dal bozzetto va riportato (con l'aiuto della quadrettatura) sull'arricciato
per poter vedere l'effetto nella dimensione definitiva. Questo lavoro,
che poi scompare sotto l'intonaco, prende il nome di sinopia perché generalmente
veniva fatto con una terra rossa proveniente dalla città di Sinope (Turchia).
Alcune
sinopie possono venire alla luce quando si scrosta o cade l'intonaco dipinto.
Così è successo in alcuni ritrovamenti pompeiani che hanno rivelato anche
le "battiture dei fili". Una bella serie di sinopie rinascimentali è raccolta
nel Museo del Campo dei Miracoli a Pisa, e sinopie di estremo interesse
sono quelle del Pisanello, scoperte nel Palazzo Ducale di Mantova, le
quali furono intonacate senza che il pittore completasse l'affresco. Altri
esempi: Vicenza, Palazzo Leoni Montanari, sala dei fauni Assisi, Chiesa
inferiore di S.Francesco, cantoria della Cappella di San Stanislao. L'uso
della quadrettatura, che facilita la trascrizione dal piccolo al grande
formato, fu una innovazione del sec. XV e il primo esempio si trova nella
Trinità del Masaccio in Santa Maria Novella.
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2.
Cartone |
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Dalla sinopia o dal bozzetto si ricavano i "cartoni" che sono disegni
in grandezza definitiva e possono essere dipinti in modo particolareggiato
come studio per l'affresco.
Gli
antichi e gli orientali, compresi molti bizantini, lavoravano senza preparare
né sinopie né cartoni, perché la loro esecuzione era basata su schemi
fissi imparati a memoria.
I giotteschi eseguivano soltanto la sinopia e poi lavoravano a memoria.
Nella Cappella degli Scrovegni in Padova si possono notare alcune incertezze
di Giotto dovute alla mancanza del cartone.
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L'uso
sicuro dei cartoni comincia solo nel primo periodo della Rinascenza. Ciò
permise, specie per affreschi di piccole dimensioni, di fare a meno della
sinopia, la quale è effettivamente necessaria solo sulle grandi superfici
dove è utile per determinare la composizione generale. I cartoni hanno avuto
un periodo di grande importanza quando venivano preparati da artisti che
affidavano poi agli allievi la pittura dell'affresco. Così fece Tiziano
che eseguì i cartoni per l'affresco dipinto dai seguaci nella chiesa di
Pieve di Cadore, purtroppo demolita nel XIX
secolo.
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La
Scuola di Atene (1509), Cartone preparatorio di Raffaello Sanzio, Pinacoteca
Ambrosiana di Milano
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3.
Tonachino |
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Il muratore
stenderà il
tonachino sopra
l'arriccio (coprendo quindi
anche
parte
della
sinopia) sulla porzione che il pittore valuta di dipingere nell'arco di
qualche ora fintanto che l'intonaco rimane umido.
Il
pittore deve quindi programmare i confini delle porzioni successive, dette
"giornate", e il muratore deve aggiungere la malta in modo preciso,
senza sormontare o scalfire la parte dipinta.
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I
romani eseguivano l'affresco "a pontate", ossia a spazi permessi dall'ampiezza
delle impalcature. L'uso delle "pontate" si mantiene finché le grandi superfici
sono dipinte con una tecnica piuttosto sommaria, facilitata anche dalla
semplicità del disegno e dall'impiego di moduli iconografici fissi. E' nel
sec. XIII che si matura la tecnica del "buon fresco" e una spia precisa
di questo processo è proprio il passaggio dalle "pontate" alle "giornate"
di intonaco. Nello stesso cantiere di Assisi, nel giro di pochi anni (da
Cimabue a Giotto) assistiamo alla stesura a pontate per passare alla stesura
a pontate che segnano i contorni delle figure, fino alla suddivisione in
vere e proprie giornate. Spetta a Giotto compiere una sintesi formale e
tecnica delle esperienze precedenti e a lui parallele, impostando le basi
del procedimento che impronterà la pittura murale italiana dei secoli successivi.
Tuttavia anche nel percorso di Giotto sono presenti opere che non rientrano
negli schemi del buon fresco. E' il caso della cappella Peruzzi in Santa
Croce eseguita quasi integralmente a secco con intonaco a pontate; anche
nella cappella Bardi il restauro ha evidenziato un ampio ricorso a colori
a tempera dovuto alla grande estensione delle giornate.
Gli affreschi che hanno meglio resistito nel tempo risultano di superficie
liscia e compatta e sono caratteristici del 300 e del 400. Nei secoli seguenti
si andò privilegiando la superficie granulosa che evitava i riflessi e aveva
un senso di maggior luminosità, ma col tempo la pittura ha sofferto perché
sull'intonaco si sono depositate facilmente le polveri.
Per rendere liscia la superficie si può aggiungere la polvere di marmo:
una parte di calce + una parte di sabbia + una parte di polvere di marmo.
Alcuni suggeriscono di dare una mano di acqua e sapone (di Marsiglia) onde
ottenere una superficie ancora più liscia e rendere più agevole lo scorrere
del pennello. La parte di intonaco che eventualmente non si è riusciti a
dipingere deve essere abbattuta, ed il lavoro viene ripreso il giorno dopo
su un nuovo intonaco.
A
questo proposito abbiamo una precisa e curiosa testimonianza ad Assisi,
nella chiesa inferiore di S. Francesco, nell'accesso alla cappella di S.
Antonio Abate e anche all'interno della cappella stessa dipinta da Giotto
e seguaci: il lavoro è stato sospeso senza che sia stato tolto il tonachino
eccedente e su questo si notano anche alcuni tocchi di pennellate di prova
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4.
Spolvero |
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Il
procedimento di passaggio dal cartone all'intonaco si chiama "spolvero"
perché consiste nel bucherellare i contorni del disegno e passare sui buchi un
colore in polvere che si fissa sulla malta riproducendo la sagoma delle
figure. Lo spolvero avviene anche passando sul cartone (in questo caso carta
leggera) una punta che lascia un solco sulla malta.
Questo
solco è rintracciabile in quasi tutti gli affreschi dal Cinquecento in poi.
Se si trovano solchi in affreschi precedenti, come per es. a Paestum o in
alcuni affreschi medievali, essi sono dovuti ad un abbozzo di disegno tracciato
con una punta direttamente sulla malta senza trasporto dal cartone.
(Particolare
dell'affresco Leggenda della Vera Croce
di Piero Della
Francesca, l'intonaco mostra i segni dello spolvero)
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5. Pittura |
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Per
incominciare la pittura, la superficie deve "tenere" sotto il pennello:
deve "tirare", cioè l'umido quasi oleoso della calce di superficie deve
trattenere i colori consentendo una certa manovrabilità di impasto e fusione
di tinte. Solo la pratica dà all'affreschista la sensibilità necessaria
a giustamente operare. I primi colori applicati vanno messi con toni caricati
perché l'umidità dell'intonaco li dissolve con rapidità e quindi li indebolisce.
Le sovrapposizioni devono essere fatte dopo un breve intervallo per dare
ad ogni stesura il tempo di fissarsi.
Gli antichi preparavano il chiaroscuro in monocromia (bianco, nero e bruno)
e poi applicavano i colori. Così facevano specialmente coloro che finivano
il lavoro a tempera. Così dimostrò di fare il Correggio nel Duomo di Parma
dove alcune parti, che non furono ultimate, sono rimaste in bianco e nero
e altre risultano completate a tempera. Anche Michelangelo dipingeva sopra
una base chiaroscurale, ma eseguiva tutto a fresco.
Alcuni pittori trattano l'affresco come l'acquarello, applicando il colore
a velature (Pordenone). Altri, dopo aver piazzato le masse principali
e averle fuse, rifiniscono l'opera con caratteristici tratteggi (Veronese
a Villa Maser).
Si usa anche la stesura ad impasto, tipica del '600 e del '700: il colore
viene steso "a corpo", a volte alterando la superficie dell'intonaco,
ma con la conseguenza di esporlo maggiormente al deposito della polvere.
Sull'intonaco
fresco si possono anche soffiare i pigmenti in polvere, specie quelli
insolubili in acqua.
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Alla fine della "giornata", quando il muro comincia ad
asciugare, non si può più dipingere.
Si può passare qualche velatura con acqua di calce, la quale, però, se
non è limpidissima, abbassa i toni e li rende alquanto opachi.
Le parti di tonachino, eventualmente non dipinto, vanno rimosse per far
posto all'intonaco della giornata successiva.
Qualora
vi fosse la necessità di sospendere il lavoro, in previsione di riprenderlo
nel giro di qualche ora, si protegge la parte fresca con un panno umido
o con in telo di plastica che trattenga l'umidità. Alla ripresa della
pittura la superficie viene inumidita di nuovo e i colori vengono stemperati
in acqua di calce. Questo procedimento non presenta le medesime garanzie
di solidità del vero affresco, in quanto l'intonaco in parte già secco
assorbe molto meno i pigmenti e la carbonatazione avviene solo in superficie.
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Nella
malta si trovano spesso inseriti elementi diversi, intesi a costituire un
insieme polimaterico illusivo, ad esempio le sfere di vetro nei nimbi in
San Salvatore a Brescia (VIII sec.); oppure la vera pergamena in mano a
Gesù Bambino della Maestà di Simone Martini a Siena; o l'inserimento di
fogli di cera stampigliati (secondo la tecnica tedesca detta Pressbrokate)
nell'Annunciazione del Pisanello a S. Fermo di Verona; o ancora la stoffa
della bandiera nell'affresco di Amico Aspertini (XV sec.) nell'oratorio
di Santa Cecilia a Bologna. Curioso infine il documento di acquisto di vetri,
pietre, smalti e lamine metalliche di vario tipo da parte di Gentile da
Fabriano per la decorazione della perduta cappella del Broletto di Brescia. |
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6.
Verniciatura |
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Non è necessario verniciare gli affreschi, ma è stato fatto spesso.
I Romani
usavano rivestire l'affresco con uno strato di cera mescolata con olio seccativo
o volatile. Su diversi affreschi del Cinquecento è stata passata una mano
di cera a guisa di vernice finale. Leon Battista Alberti consiglia una mano
di mastice sciolto in cera e olio, facendolo penetrare con una fonte di
calore.
Oggi si può usare la cera d'api diluita nell'acquaragia o nella benzina.
Tale cera va stesa col pennello e strofinata con lana. Questa cera può essere
usata come veicolo degli stessi colori per effettuare delle velature dove
serva ripristinare delle tinte troppo sbiadite o dove sia necessario portare
delle variazioni di tono. |
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